L’abito tradizionale maschile

Accademia tradizioni popolari Tempio Pausania
Foto di Silvia Zoroddu

Il complicato modo di vestire, oggi riconosciuto come costume popolare della Sardegna, rappresenta l’esito di un lungo processo di trasformazione, che prende avvio nel XVI e si conclude nel XIX secolo.

L’Ottocento produce una testimonianza testuale e iconografica di straordinaria ampiezza e varietà, da cui emergono i modi di vivere e vestire dei Sardi. Queste testimonianze rendono visibili le varie sfaccettature del modo di vestire e l’abbigliamento utilizzato in gran parte dalle popolazioni isolane, testimonianze fornite da studi ponderati, reportage e memorie che diversi viaggiatori, inviati governativi, letterati e/o militari, al termine dei loro viaggi, hanno dato alle stampe nelle tipografie di Torino, Milano, Parigi, Londra ed altre città europee. Nel caso dell’abbigliamento maschile tempiese completamente nero, possiamo dire che esso era composto, nell’insieme, dagli stessi capi che erano generalmente indossati dagli uomini delle altre zone della Sardegna, e nello specifico:

Copricapo – Berritta: di forma a sacco, con bordi arrotondati, lungo circa 40/50 centimetri, di colore nero ma anche rosso, di orbace, panno o velluto. Veniva indossata generalmente in due modi distinti, rimboccata leggermente o cascante sulla spalla sinistra o all’indietro, piegandola sulla fronte.

Camicia – Camigja: molto ampia, di colore bianco, il tessuto usato per la sua foggia era lino o cotone, con o senza colletto; quando la camicia aveva il colletto, una striscia di 10 centimetri circa, esso era fornito di due asole all’estremità per far posto ai gemelli d’oro o d’argento che venivano usati anche ai polsini; sia il colletto sia i polsini venivano accuratamente ricamati a mano.

Corpetto – Canscju (gilet): senza maniche, con abbottonatura a uno o a doppio petto, di panno di lana o di velluto liscio, di colore nero ma anche rosso, veniva indossato sulla camicia.

Giubbetto – Gipponi: in alternativa al corpetto/canscju, veniva indossato il cosiddetto Giubbetto a maniche lunghe di colore rosso, generalmente confezionato con panno e/o velluto, con chiusura a doppio petto sul davanti lateralmente; poteva essere guarnito sul petto e sulle maniche da bottoni d’oro o d’argento. Di questo Giubbetto ne parla anche Padre Gelasio Floris nel suo “Componimento Topografico….” e scrive che il Sardo, sopratutto i possidenti, usa una giubetta detta Gipponi di panno rosso ordinariamente o anche di saiale nero, presso i meno possidenti e del comun volgo, il taglio di questo Gipponi è semplicemente accomodato al corpo senza bavaro, ne piegatura alcuna e non cala più in giù dei reni. …. Nella parte settentrionale dell’isola poi si addopia nel petto e s’abbotona nella spalla. …….. Le maniche di questo Gippone…… nel Logudoro e Gallura, sono scucite ed aperte per tutta la parte interiore del braccio cioè, dalla ascella, sino alla parte più vicina al corpo, cosichè essendo le maniche della camicia larghe come ho detto, sorgono fuori gonfie, e sventolano, quando l’uomo agita le braccia. Tutte le estremità poi visibili di questi Gipponi tanto verso il collo e nel petto, come nell’apertura delle braccia, nel polso ed anche nei reni sono orlate con fettuccia, o nastro ordinariamente di color turchino, e le opportune asole sono tessute con setta gialla o verde..

Calzoni – Mutandoni: di colore bianco, molto ampi, di lunghezza variabile ma almeno sotto al ginocchio, di lino o cotone ma anche di orbace, venivano indossati con le estremità inferiori infilate dentro le uose o ghette.

Gonnellino – Gonnellinu (Ragas): di colore nero, di panno o di orbace, di varia lunghezza ma prevalentemente corto sino a metà della coscia, increspato in vita con una fitta pieghettatura; con una striscia, passando fra le inguine, univa i lembi anteriori e posteriori; veniva indossato sopra i calzoni bianchi. Il F. De Rosa lo definisce “Le Bracche”. Soprattutto nella parte centro/settentrionale dell’isola, quindi anche a Tempio, talvolta venivano usati calzoni lunghi a tubo di panno e/o orbace nero, che sostituivano l’insieme di gonnellino/calzoni/ghette.

Li Ghetti (gambiera bassa): di orbace/panno di colore nero, aperti nel fianco internamente, vengono chiusi e fissati sotto il ginocchio da una stringa nera, che può anche proseguire per fissarli al polpaccio, incrociandosi stretta a partire dal ginocchio fino al basso; possono essere ornati nella parte superiore con una striscia di velluto larga due dita; dentro le Ghette vengono infilati i Mutandoni.

Scarpe – Scarpe grosse (botti, calzari): nel 1899 F. de Rosa, nel suo Tradizioni Popolari di Gallura, dice che le scarpe usate mezzo secolo fa non erano che le pianelle o sandali di crudo cuoio dei prischi Toscani, Greci e Romani, da questi ultimi detti perones o culponiae, da cui derivò la voce sarda scalpones. I più portavano scarpe terminanti a punta, un tempo rivolta in su, come quella degli Hittiti. Di colore nero o marrone.

Questo abbigliamento può essere completato da:

Cappotto Lungo – Gabbanu: detto anche palandrana, è una veste lunga d’orbace nero, provvista di largo cappuccio e collo sparato, usato per ricoprire interamente la persona sedendo a cavallo, ma anche per giaciglio, o ricoprirsi la notte coricandosi all’aperto.

Giacca di orbace nero, Gabbanella – Cappottinu: con cappuccio e bordi interni guarniti di velluto nero, un cappotto più piccolo simile al Gabbanu di orbace, rifinito con alamari e ricami vari di velluto. Lo stesso poteva essere filettato di rosso bruno.